Il soldato che ha scattato la foto – Mauthausen, Austria, 1945

Ci sono immagini che non sbiadiscono mai, istantanee così profondamente impresse nella memoria collettiva da diventare più che semplici fotografie: frammenti di storia. Nel maggio del 1945, mentre la Seconda Guerra Mondiale volgeva al termine in Europa, un soldato americano, parte delle truppe impegnate nella liberazione del campo di concentramento di Mauthausen, alzò la macchina fotografica e catturò l’attimo in cui prigionieri emaciati e scheletrici emergevano dall’ombra alla luce.
Quel semplice gesto, premere il pulsante di scatto, divenne un atto di resistenza contro l’oblio. Perché nel silenzio che seguì la Liberazione, servivano prove. Il mondo, pensò il soldato, non crederà se non vedrà. Troppe voci erano già state messe a tacere, troppe verità soppresse dalla macchina nazista. Così puntò l’obiettivo su queste persone che si avvicinavano, con gli occhi persi, i corpi spezzati, ma ancora in piedi.
I sopravvissuti di Mauthausen erano solo ombre di se stessi. Le guance incavate, le braccia emaciate e l’andatura instabile testimoniavano la fame e i lavori forzati. Mauthausen era noto come un campo di lavoro di sterminio: i gradini della cava, che i prigionieri chiamavano “scale della morte”, videro migliaia di uomini crollare sotto il peso delle pietre che erano costretti a trasportare. Ogni gradino divenne una lotta per la vita e la morte.
Quando i soldati americani entrarono nel campo il 5 maggio 1945, furono colpiti dal fetore, dalla vista di mucchi di cadaveri e dall’immagine raccapricciante dei sopravvissuti. Tuttavia, il soldato-fotografo si rese conto che ciò che vedeva era al di là della sua comprensione. In seguito dichiarò: “Ho scattato quella foto perché sapevo che nessuno avrebbe creduto a quei volti se non li avessi riportati indietro. Non era una foto; era la mia promessa”.
In questa fila di uomini esausti, si potevano vedere prigionieri di ogni estrazione: partigiani spagnoli, prigionieri politici, deportati ebrei, intellettuali, sacerdoti, oppositori politici. Mauthausen ospitava coloro che il regime nazista cercava di annientare lentamente attraverso lavori massacranti, fame e terrore. La fotografia divenne una delle prime prove che il mondo vide. Attraverso quei volti, si potevano distinguere non solo i singoli individui, ma anche le tracce di milioni di altri che erano scomparsi senza lasciare traccia.
Un sopravvissuto, intervistato molti anni dopo, descrisse proprio questo momento: “Quando varcammo la soglia, non sapevamo se eravamo vivi o già fantasmi. Il soldato ci guardò, poi ci mise davanti una scatola nera. Eravamo troppo deboli per parlare, ma istintivamente alzammo le mani come per dire: ‘Esistiamo ancora'”. Questo gesto apparentemente insignificante simboleggiava una dignità ritrovata.
L’atto fotografico assunse qui una dimensione quasi sacra. Laddove i nazisti tentavano di cancellare ogni traccia, di ridurre i prigionieri a semplici numeri, la macchina fotografica del soldato ne restituiva il volto, la singolarità. In un mondo che cercava di negare la loro umanità, questa fotografia proclamava esattamente l’opposto: “Queste sono persone. Questi sono sopravvissuti. Questi sono testimoni”.
Dopo la guerra, queste immagini circolarono sulla stampa internazionale. Venivano esibite ai processi, esposte nelle aule di tribunale di Norimberga e proiettate in modo che i carnefici non potessero negarle. Senza di esse, l’Olocausto rischiava di rimanere una diceria, indebolita da chi preferiva chiudere un occhio. Grazie a loro, nessuno poteva dire: “Non lo sapevo”.
Mauthausen, in Austria, fu uno dei campi più orribili della Seconda Guerra Mondiale. Vi furono deportati più di 190.000 prigionieri, quasi la metà dei quali non fece mai ritorno. I gradini della cava di granito, la fame quotidiana, le percosse e le esecuzioni sommarie facevano parte della vita quotidiana. Le persone nella fotografia del soldato americano non sono solo sopravvissuti: sono rimpatriati, scampati per un pelo alla morte.
Il soldato che ha scattato questa foto non ha mai cercato la fama. Non voleva essere ricordato più per il suo nome che per le foto. Ciò che contava per lui non era l’uomo che impugnava la macchina fotografica, ma coloro che le stavano davanti. Questa foto, diceva, non era opera sua, ma la loro eredità. Non si stancava mai di ripetere: “Volevo che avessero un volto, così che il mondo li vedesse e non li dimenticasse”.
Questo gesto, di sconvolgente semplicità, ci ricorda la funzione fondamentale della fotografia nella storia. Una fotografia può essere un’arma contro il negazionismo dell’Olocausto, una prova inconfutabile. Può anche essere una tomba per coloro che non sono mai stati sepolti, un modo per preservare per l’eternità ciò che rischiava di andare perduto.

Ogni anno, i visitatori del Memoriale di Mauthausen si soffermano davanti a queste fotografie. Cercano anche solo uno sguardo fugace, un frammento di umanità a cui aggrapparsi. Alcuni sopravvissuti, ormai molto anziani, sono riusciti a riconoscere se stessi o un compagno d’armi. Molti piangono in silenzio. La fotografia del soldato parla ancora, decenni dopo la chiusura dell’otturatore.
Oggi, nel nostro mondo saturo di immagini, è facile dimenticare che alcuni di loro sono nati nel dolore e portano con sé l’inestimabile peso della storia. La foto di Mauthausen non è solo un’immagine da manuale. È un documento vivo, una testimonianza inconfutabile dell’Olocausto e della barbarie nazista.
Dando voce a questi prigionieri ridotti al silenzio, il soldato-fotografo lanciava anche un appello al futuro: non chiudiamo gli occhi, non dimentichiamo, non permettiamo mai che la negazione e l’odio dell’Olocausto mettano radici di nuovo. Nel debole respiro di questi uomini, che barcollavano verso la luce, giaceva la promessa della vita, la promessa della memoria.
E se ancora oggi guardiamo questa foto, è forse perché è un invito rivolto a ciascuno di noi a diventare custodi di questa memoria.
Perché dietro il filo spinato di Mauthausen, dietro i gradini di pietra e di sangue della cava, resta congelato questo istante: i sopravvissuti avanzano, un soldato scatta foto e il mondo scopre con stupore i volti che la Storia vorrebbe cancellare.
Nota: alcuni contenuti sono stati generati utilizzando strumenti di intelligenza artificiale (ChatGPT) e modificati dall’autore per motivi creativi e per adattarli a scopi di illustrazione storica.


